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Fino alla vittoria. Intervista a Ouday Ramadan, giornalista siriano

Pubblicato da: UVNS 0 Commenti

Ouday Ramadan è un giornalista siriano da anni impegnato attivamente qui in Italia nel combattere una guerra parallela a quella siriana: quella contro la cattiva informazione. Nato in Libano da una famiglia siriana, vive la sua giovinezza a cavallo dei due Paesi. Da più di trent’anni risiede in Italia, terra che ama profondamente. Sin dall’inizio della guerra in Siria, si fa promotore di manifestazioni e conferenze volte a far luce sulle origini del conflitto. In un’intervista rilasciataci, ha dipinto l’attuale quadro della situazione.

 

Buonasera Ouday. Lei di recente, meno di due mesi fa, è stato in Siria. Come l’ha trovata?
Ho girato un po’ la Siria, sono stato a Tartous, a Damasco, ad Homs, ad Aleppo, l’ho girata un po’ tutta. Escluse due zone, tre per l’esattezza, la situazione è molto migliorata anche dal punto di vista militare, siamo all’epilogo finale. La stragrande maggioranza delle riserve, quelle riserve che erano state chiamate nel 2011, è stata mandata in congedo a gennaio del 2019. Damasco pullula di gente, oggi tocca otto milioni di abitanti, quasi nove. La situazione ad Aleppo sta seguendo la grande ricostruzione del Paese, ad Homs lo stesso, quindi nettamente migliorata rispetto a qualche anno fa o anche solo rispetto alla fine del 2017.

Molte persone negli anni passati hanno abbandonato la Siria per rifugiarsi altrove. Oggi stanno tornando? Se sì, trovano difficoltà e di che tipo?
Innanzitutto va detto che il governo, sin dallo scoppio dei disordini, ha invitato tutti coloro che erano nelle zone calde di guerra a recarsi nelle zone considerate molto più sicure, parlo del nord della Siria e di quella costiera. Molti si sono trasferiti in altre città del Paese, molti altri sono andati in Libano, chi in Turchia, altri ancora in Europa, chi in altre nazioni ancora. Il governo ha sempre dato la disponibilità a tutti di tornare alle proprie abitazioni, nelle proprie città, infatti molti sono rientrati. Il processo di rientro non è cominciato da ora, ma già da tre/quattro anni. Chi non ha deciso di ritornare è quella “classe specializzata” accolta dall’Europa, come in Germania dove 500.000 leve siriane, medici e ingegneri, persone aventi titolo di studio, personale tecnico, sono state assorbite dalla signora Merkel nelle strutture tedesche. Queste persone, in gran parte laureati, avevano studiato a totale carico dello Stato siriano, salvo poi decidere di andarsene, scappare e non tornare. Meglio così: vuol dire che in Siria rimane e rimarrà solo l’elemento sano e migliore della popolazione. Tantissimi altri, però, sono tornati o sono sulla via del ritorno. La difficoltà di quelli che tornano nelle città che sono state zone di guerra è la difficoltà di riprendere una vita interrotta da tanti anni, è quella di ricostruire la propria abitazione, ma il governo siriano si sta già muovendo in tal senso. Ad Homs oggi si stanno ricostruendo ex-novo circa 50.000 unità abitative. Le strutture statali danno assistenza a tutti coloro che sono rientrati nel Paese, assistenza di trasporto, alimentare, sanitaria, all’istruzione. Chi torna trova un forte appoggio da parte dello Stato, nonostante le difficoltà attuali. Oltre a facilitare il rientro, Assad ha concesso parecchie amnistie, anche a coloro che avevano contribuito alla lotta armata contro il governo. Molta di questa gente ha ottenuto immediatamente la libertà, senza essere posta in stato d’arresto neanche per tre secondi, sono stati subito reintegrati nel tessuto sociale siriano. Tant’è che non sono mancate le lamentele da parte di chi aveva costantemente sostenuto il governo in questi anni di crisi.

Noi, durante la nostra missione umanitaria in Siria, siamo stati a Tartous nel 2016. Ci aveva colpito la situazione della città, molto tranquilla e quasi non toccata dalla guerra. Cosa si percepisce da Tartous sulla situazione ad Idlib?
La situazione a Tartous è stata apparentemente un po’ più rosea rispetto alle altre città siriane, dico apparentemente perché Tartous è stata sì risparmiata dalla guerra – salvo pochi episodi di terrorismo avvenuti alle stazioni degli autobus o ai checkpoint – ma lo è stata grazie al sangue dei suoi ragazzi. Tartous non a caso viene chiamata “La capitale dei martiri”, i suoi figli hanno dato il più alto contributo in sangue. Se non fosse stato per i ragazzi di Tartous e per il loro sacrificio, sicuramente della vittoria non se ne poteva neanche parlare. Tartous continua a vivere la sua vita, noi la chiamiamo “La sposa del Mediterraneo”. Prima della crisi contava intorno agli 800.000 abitanti, oggi supera i due milioni perché solo da Aleppo sono arrivati un milione di cittadini, oggi parte integrante del tessuto sociale della città. Quello che gli abitanti pensano di Idlib è quello che pensano tutti i cittadini siriani: non vedono l’ora che arrivi l’ora x, quell’ora che metta fine al terrorismo wahabita takfiro saudita trapiantato in Siria. Tutti noi siriani guardiamo a quell’ora come all’ora della fine, se siamo riusciti a cacciarli da Aleppo, da Homs, da Yabroud, da Damasco, da Dar’a, li cacceremo anche da lì.

Quali sono le prospettive di pacificazione? Qual è il futuro?
I siriani muoiono dalla frenesia di porre fine a questo ultimo capitolo della guerra ma ovviamente tutto non dipende esclusivamente dalla loro volontà, ci sono anche i rapporti internazionali da rispettare. Oggi ad Idlib si va verso una trattativa condotta in gran parte dalla amministrazione russa, in collaborazione con quella iraniana e in dialogo con quello turca. I siriani guardano all’esito finale di questa battaglia, non vedono l’ora di farla pagare ai terroristi. Se così nel futuro sarà, lo auspichiamo, altrimenti si arriverà ad una situazione politica che restituirà comunque alla Siria la città e la regione di Idlib. Non ho il motivo di dire il contrario perché tutti gli elementi sul campo giocano a favore della Siria, militarmente e politicamente parlando detiene il rapporto di forza più grande. La regione è accerchiata, fatta esclusione per il confine turco ma, secondo me, prima o poi, Erdogan o si persuaderà da solo o qualcuno lo farà, facendogli capire che è finito il tempo in cui poteva dare spazio a queste bande di tagliagole. Ci vorrà qualche mese ma sicuramente si arriverà ad un epilogo, politico o militare. I siriani auspicano senza dubbio la soluzione militare.

Si parla tanto di ricostruzione nazionale. Secondo lei che ruolo può avere l’Italia nell’ottica della ricostruzione? L’Italia poteva e può avere un ruolo importante e primario nella ricostruzione, purtroppo né il governo precedente né quello attuale hanno fatto qualcosa per ripristinare quei rapporti millenari interrotti con il governo Monti. Fatta esclusione per l’interrogazione di Ferrara e per le tiepide osservazioni del ministro Moavero, non sembra esserci la volontà di procedere in tal senso. Ciò non fa altro che far perdere all’Italia, oltre che un ruolo importante per la ricostruzione, anche quell’influenza culturale che da sempre ha avuto sulla Siria, dai tempi di Traiano. L’Italia perde in aggiunta anche una grande possibilità economica, fino al 2011 la Siria era il suo primo partner commerciale nel Medio Oriente. Ripristinare questo rapporto va fatto, e va fatto il prima possibile. Io da italo-siriano, più italo che siriano in questo caso, auspico l’immediata riapertura dei rapporti diplomatici tra i due paesi.

Non possiamo che far nostro l’accorato appello di Ouday Ramadan, non solo per i rapporti millenari che il nostro Paese ha con la Siria ma soprattutto perché l’Italia ha ancora l’occasione di dimostrare di saper fare la cosa giusta.  

Di Federica Miceli

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