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Lascia o raddoppia: Trump e la Siria

Pubblicato da: UVNS 0 Commenti

Parrebbero essere giorni particolarmente duri per il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Il 19 dicembre Donald Trump, in un videomessaggio diffuso via social, ha annunciato il ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria. Le forze armate di Washington, circa 2.600 unità, dovrebbero in breve tempo fare ritorno oltreoceano, a casa. In molti hanno contestato questa decisione, sia semplici cittadini che membri del congresso: vuoi per l’imprevedibilità di questo provvedimento, vuoi perché associato all’annuncio – diramato da fonti della Difesa – del dimezzamento dei militari presenti in Afghanistan, oggi 14.000 mila uomini. A seguito del comunicato il capo del Pentagono, il segretario della difesa James Mattis, con una lettera ha rassegnato le sue dimissioni, scatenando ulteriori polemiche. Se la presenza statunitense in Afghanistan verrà dimezzata – dopo essere stata raddoppiata dallo stesso Trump nel 2017 -, quella in Iraq sembra invece acquistare ancora più rilevanza. Durante una visita a sorpresa al contingente lì impegnato, che conta suppergiù 5.200 soldati, Donald Trump ha ribadito la necessità della permanenza USA a Baghdad dove le truppe americane sono impegnate nell’addestramento di quelle irachene, fornendo anche consulenza al fine di “evitare che l’ISIS riemerga”. L’Iraq è stata la sua prima visita presidenziale in una zona di combattimento attiva, zona in cui dal 2003 – dai dati forniti dal dipartimento della difesa – hanno trovato la morte 4.423 militari suoi compatrioti e dove altri 31.958 soldati sono rimasti feriti.[1] Considerando le ultime dichiarazioni l’intervento degli Stati Uniti in Iraq forse ancora per poco potrà dirsi secondo a quello in Afghanistan, già battezzato come “guerra infinita” perché anche sinonimo di “disastro totale”. “Vogliamo la pace, e il modo migliore per avere la pace è attraverso la forza”[2] ha detto Trump alle truppe in territorio iracheno prima di concludere la sua visita, che è un po’ come dire che il fine giustifica sempre i mezzi, anche quando i mezzi sono fatti di bombardamenti su città prive di obiettivi militari e di stragi di civili. E questo non può che non riportarci all’intervento nella Siria di Assad e alla guerra per procura che è – ormai a pieno titolo – il modus operandi statunitense. Che Daesh e i suoi affiliati non siano stati ancora completamente sconfitti in Siria è purtroppo ancora una realtà, certamente più indubbia è l’assoluta irrilevanza delle operazioni militari portate a termine dagli Stati Uniti con l’intenzione di fermare l’avanzata dei gruppi jihadisti. Tutto come da copione: stragi, massacri, bombardamenti, finanziamenti, opposizione alla risoluzione.

L’ISIS, motivo dell’intervento, non è stato sconfitto ma Trump ha improvvisamente ordinato alle truppe in Siria di tornare a casa. “Il presidente della Turchia Erdoğan mi ha fortemente assicurato che sradicherà tutto ciò che resta dell’ISIS in Siria”, ha detto il presidente USA in un tweet intorno alla mezzanotte del 23 dicembre. Meno di quarantotto ore dopo, la sera del giorno di Natale, sei aerei da caccia israeliani F-16 hanno usato due voli civili come copertura per colpire il sud-ovest della periferia di Damasco, utilizzando lo spazio aereo libanese. Così, per contrastare l’attacco, l’esercito siriano è stato costretto a limitare l’uso di sistemi di difesa aerea al fine di evitare una tragedia. Ciò nonostante, solo due delle sedici bombe sganciate da Israele hanno raggiunto i loro obiettivi, tutto il resto è stato intercettato e neutralizzato[3]. Il bilancio finale è di tre soldati siriani feriti. Proprio la sera di Natale, il primo Natale – come afferma padre Bahjat Elia Karakach, parroco e superiore del Convento di San Paolo a Damasco, a VaticanNews – “che viviamo dopo le violenze, il primo Natale che viviamo in sicurezza, senza paura di mortai, di atti terroristici. Si respira un clima veramente molto positivo e gioioso. Le celebrazioni sono ovunque, gente per le strade, nei mercati, anche le piazze della città sono abbellite”[4]. Niente ferma l’America e niente ferma Israele, neanche la nascita di Gesù Bambino. “Tre temi che hanno caratterizzato la politica estera del presidente, anche mentre perseguiva il suo programma per l’America First, erano: la lotta al terrorismo, il contenimento dell’Iran e la protezione della sicurezza dello Stato di Israele. Il ritiro dell’America dalla Siria minaccia tutti e tre” scrive Kenneth Jacobson su The Time of Israel[5]. Ma Trump non è di questo avviso e ai giornalisti ha rivelato: “Ho parlato con Bibi” – riferendosi al primo ministro Benjamin Netanyahu – “Ho detto a Bibi, sai che diamo a Israele 4,5 miliardi l’anno. Sono io quello che ha trasferito l’ambasciata a Gerusalemme”[6]. Non si fa attendere la replica di Netanyahu che mercoledì 26 dicembre, durante una cerimonia militare, ha affermato che il ritiro degli Stati Uniti non cambierà la sua politica, “Siamo fermamente saldi sulle nostre linee rosse in Siria e ovunque”. Non ha menzionato direttamente le incursioni aeree ma ha detto che l’aviazione israeliana ha capacità ineguagliate e può raggiungere aree “vicine e lontane, molto lontane”. Neanche troppo velata come minaccia, s’intende. Guardandola da questa prospettiva la presenza statunitense in Iraq ha tutto un altro colore e no, non è quello della pace.

Di Federica Miceli


[1] Bongiorni, Roberto. “Afghanistan: così la «guerra infinita» non scongiura il ritorno dei Talebani”. https://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2018-02-03/afghanistan-guerra-infinita-non-scongiura-ritorno-talebani-101121.shtml?uuid=AEDHO0tD . Il Sole24ore. 03/02/18. Web. 28/12/18.

[2] Reuters, Thomson. “Trump visits troops in Iraq amid political turmoil over Syria withdrawal”. https://www.cbc.ca/news/world/trump-iraq-troops-syria-withdrawal-1.4959246 . CBC.CA. 26/12/18. Web. 28/12/18.

[3] Mazen. “Syrian Air defenses intercept hostile missiles launched by Israeli warplanes, down most of them”. https://sana.sy/en/?p=154400 . SANA. 25/12/18. Web. 28/12/18.

[4] Guerra, Marco. “Siria. Natale a porte aperte per la Chiesa di Damasco”.  https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2018-12/siria-natale-porte-aperte-per-chiesa-damasco.html . 26/12/18. Web. 28/12/18.

[5] Jacobson, Kenneth. “Fight terror, block Iran, protect Israel — or leave Syria”.  https://blogs.timesofisrael.com/fight-terror-block-iran-protect-israel-or-leave-syria/ . The Time of Israel. 27/12/18. Web. 28/12/18.

[6] De Giovannangeli, Umberto. “L’America First di Donald Trump trasforma il Medio Oriente in un suq”. https://www.huffingtonpost.it/2018/12/27/lamerica-first-di-donald-trump-trasforma-il-medio-oriente-in-un-suq_a_23628001/ . HuffingtonPost. 27/12/18. Web. 28/12/18.

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